Ghost in the Shell: 25 anni per l'apprezzato film di Mamoru Oshii

Riscopriamo questa pietra miliare dell'animazione giapponese grazie alle parole del suo regista

di Slanzard

In Occidente, quando si parla di animazione cinematografica giapponese di qualità vi sono alcuni nomi ricorrenti: lo Studio Ghibli, Akira, Satoshi Kon, Mamoru Oshii... tra questi, uno dei titoli più iconici sia per la sua importanza storica e il suo impatto sul cinema occidentale, sia per il suo apprezzamento sia di pubblico che di critica è senza alcun dubbio Ghost in the Shell di Mamoru Oshii. A un quarto di secolo dalla sua prima trasmissione questo film psicologico e riflessivo ha mantenuto intatta tutta la sua bellezza e ricercatezza, ed approfittiamo dell'importante anniversario per riproporvi un'intervista al suo regista, preceduta da una breve introduzione sull'opera tratta dal nostro vecchio approfondimento sul franchise scritto dal buon Limbes.
Il nome Masanori Ota probabilmente non dirà niente ai più; ciò nonostante stiamo parlando di uno fra i mangaka più famosi a livello internazionale, creatore dell’opera originale dalla quale derivò l’universo anime/manga cyberpunk Koukaku Kidoutai (squadra mobile corazzata, o squadra mobile del guscio), meglio noto nel mondo come Ghost in the Shell. Quanto appena detto potrebbe sembrare una contraddizione, ma l’incongruenza è presto spiegata: Masanori Ota è in realtà il vero nome di Masamune Shirow.
A partire dal 1989, su Young Magazine Kaizokuban dell’editore Kodansha, venivano serializzati gli undici capitoli che compongono appunto il manga Ghost in the Shell, che nell’Ottobre del 1991 venne edito in volume unico sempre da Kodansha.
 
Il manga originale di Masamune Shirow

Nella postilla che apre il volume, Shirow, oltre a evidenziare i meriti del cyberpunk nello svecchiamento dell’ambiente fantascientifico, introduce l’elemento che a suo avviso potrebbe dare la svolta radicale all’avanzamento tecnologico: la nanotechnology, che è difatti l’elemento onnipresente nell’aspetto scientifico pur vasto del manga, ambientato nella città di New Port City, Giappone 2029, nel quale l’avvento massiccio di questo ramo della scienza ha portato alla totale ibridazione fra essere umano e macchina. Nel mondo ipotizzato, tra robot e androidi impiegati in ogni settore produttivo, amministrativo e privato, non solo impianti artificiali e arti meccanici sono divenuti di uso comune, ma la conversione in corpi e soprattutto cervelli totalmente cibernetici è diventata la prassi indispensabile per l’integrazione sociale e per usufruire delle risorse messe a disposizione dai nuovi mezzi informatici (il net, o cyberspazio) e tecnologici (connessione diretta a dispositivi di memoria esterna e fra cervelli stessi). In tale scenario l’unica differenza che intercorre (fino a un determinato punto della trama) tra uomo e macchina è il Ghost. Ma cosa si intende con Ghost?
Con il termine Ghost viene identificata l’anima, lo spirito, vista non nel senso religioso usualmente attribuitole, bensì in un’accezione scientifico-informatica, cioè la volontà, la coscienza e i processi neurali tipici di ogni singolo essere umano o di un sistema con un certo livello di complessità; tuttavia, in alcuni passaggi Shirow lascia intendere, del Ghost, anche un’altra sfumatura, ovvero quella di sesto senso e di voce che sussurri dall’interno dell’Io (una sorta di demone socratico). Il Ghost è il punto chiave a partire dal quale si sviluppa gran parte della riflessione filosofica dell’opera: se il corpo può essere interamente convertito in una macchina (Shell, solo un guscio), che cosa definisce realmente il concetto di esistenza, che cosa è realmente la vita?
Dentro il contesto sopraesposto si muove la Sezione 9 Pubblica Sicurezza, squadra speciale della Polizia che si occupa della risoluzione di crimini e terrorismo informatici. Fra i sette membri operativi il ruolo più rilevante e ricoperto dalla figura del maggiore Motoko Kusanagi, una donna cyborg con corpo e cervello completamente cibernetici (tranne che per alcuni tessuti neurali), protagonista dell’intera opera. La Sezione 9, oltre agli agenti ordinari e a diversi androidi, si avvale anche di sette carri armati senzienti – cioè dotati di IA avanzate prive di alcune limitazioni di programma presenti per motivi di sicurezza nelle IA canoniche – dalla forma aracnoide, denominati Fuchikoma, i quali fungono da supporto operativo ai membri della squadra. Le vicende del manga si dipanano tra diverse indagini che svelano più dettagliatamente la situazione socio-politica del Giappone, gli intrighi di potere, gli interessi privati ed economici, in certi casi internazionali, presenti anche nel futuro ipotizzato da Shirow; tuttavia la storia principale si sviluppa attorno all’investigazione relativa al nome in codice “Signore dei Pupazzi” (il Marionettista), hacker di classe A e autore di diversi crimini informatici, che si introduce in profondità nella mente delle sue vittime superandone le barriere difensive, arrivando alla zona Ghost dei cervelli cibernetici e “riprogrammandone” memoria e volontà per i propri fini – procedura definita “Ghost hacking”.
Ghost in the Shell, benché possa sembrare un manga piuttosto impegnativo per i temi trattati, per la complessità di alcuni passaggi polizieschi e per certe riflessioni, alterna a questi lati più maturi gag e scene più comiche realizzate in deformed, cioè alterando volontariamente la fisionomia e le proporzioni dei personaggi per accentuarne particolari reazioni emotive. Ciò rinfresca molto la lettura e contribuisce a dare quel senso di cyberpunk leggero con il quale lo stesso Shirow inquadra la sua opera. Inoltre, le tavole abbondano di sue note a margine, le quali descrivono dettagliatamente tipologia e funzionamento di armi e macchinari, procedure tecniche avanzate, teorie scientifiche e sottintesi di trama, cercando così di descrivere e legittimare un contesto più organico e credibile, oltre che aumentarne la comprensione anche a chi non abbia una conoscenza fantascientifica o tecnica approfondita. Tuttavia, nonostante i lati più scanzonati appena citati, l’opera, per la violenza e le scene di sesso esplicite, è però riservato a un pubblico maturo.
 

Nel 1995, al Festival del Cinema di Venezia veniva proiettato un film d’animazione giapponese. Era Ghost in the Shell, di Mamoru Oshii, uscito in contemporanea in Giappone, Stati Uniti e Regno Unito successivamente alla presentazione mondiale di Bandai Visual e Manga Entertaiment, vincitore del Best Theatrical Film Award al 1st Animation Kobe 1996, nominato Best Theatrical Feature Film al The World Animation Celebration 1997, Menzione Speciale della Giuria Internazionale al 17th Festival Internazionale del Cinema di Oporto - Fantasporto 1997, primo nella classifica Billboard Top Video Sales nell’Agosto del ’96. Quanto appena illustrato basterebbe da solo a definire il ruolo che ha avuto e che continua ad avere Ghost in the Shell nella storia dell’animazione fantascientifica e non, oltre a far comprendere quale possa essere il suo valore qualitativo intrinseco.
Il film, basato sui capitoli uno, tre, nove e undici del manga di Shirow, è realizzato dalla Production I.G, diretto da Mamoru Oshii (realizzatore anche dello storyboard: il prospetto che contiene le inquadrature e la scaletta della loro sequenza), che esordì nel 1985 con Tenshi no Tamago e divenne poi celebre con le due serie OAV e i due film sul progetto Patlabor, sceneggiato da Kazunori Ito (Magical Angel Creamy Mami, Nausicaä della valle del vento, Maison Ikkoku, Patlabor), e vanta tra gli altri il character design di Hiroyuki Okiura (Akira, Kanojo no Omoide), il background design di Takashi Watabe (Nausicaä della valle del vento, Akira, Silent Mobius, Patlabor 2 the movie), la fotografia di Hisao Shirai (Armitage III), la direzione delle animazioni 3D in computer graphic di Seichi Tanaka e le musiche di Kenji Kawai (Maison Ikkoku, Ranma ½, Patlabor).
La trama, nei suoi 82 minuti di durata, segue l’unico filo conduttore della caccia al Marionettista, riadattando i capitoli sopracitati a questo fine. Nel film, dei membri della Sezione 9, sono assenti i Fuchikoma, Saito, Paz e Borma. Oltre a ciò sono assenti l’ilarità e il deformed di alcune scene. Viene mantenuta l’ambientazione, ma non è seguita la sequenza temporale del manga (che si dilaziona nel corso di un anno), inoltre la stessa New Port City fu ridisegnata in molte parti basandosi su alcuni quartieri di Hong Kong. Queste scelte hanno uno scopo ben preciso: il tono della pellicola è molto più serio, atmosfericamente più freddo, oscuro e onirico di quello del manga Oshii detta ritmi molto più lenti, concentrandosi essenzialmente sulla figura di Motoko Kusanagi e sulle sue riflessioni esistenziali, utilizzando spesso, volutamente, fermi immagine prolungati e ambigui e sequenze dai forti contenuti simbolici attraverso i quali il regista si avvicina in modo subliminale all’esposizione della teoria portata avanti dall’intera pellicola. Difatti, se il manga abbonda di spiegazioni e note accessorie, Oshii predilige un’impostazione inversa, con dialoghi introspettivi e complessi (in certi frammenti citazioni bibliche) e silenzi in cui è l’immagine a parlare e a contenere il significato sottinteso. Questo aspetto molto adulto venne unito a una colonna sonora ricercata ed evocativa, basata su cori in giapponese antico e accompagnamento musicale che sposa armonie bulgare, nipponiche ed effetti elettronici, e a una realizzazione tecnica d’avanguardia, nella quale all’animazione tradizionale fu mescolata la 3D computer graphic, non solo utilizzata per riprodurre se stessa (ovvero schermate dati e ologrammi), ma anche per rieditare con “effetti lente” le scannerizzazioni dei fondali e dei cel (i fogli di acetato su cui sono disegnate le figure), per realizzare i layout degli ambienti e per elaborare la parallasse prospettica differenziale, i movimenti di macchina prolungati e la profondità di campo. Il risultato finale fu qualcosa di mai visto fino ad allora, e rese Ghost in the Shell l’opera che aprì le porte dei festival e di una diversa critica internazionale all’animazione giapponese, che ispirò innumerevoli produzioni successive, e che fu definita dal famoso regista James CameronFirst truly adult animation film to reach a level of literary and visual excellence” (Il primo film d’animazione realmente adulto arrivato a un livello d’eccellenza visuale e letteraria).
 

Con il suo immaginario radicale Kōkaku kidōtai ha dominato l'animazione del 1995. Diverse sono state però le difficoltà superate per completarlo. Presentiamo qui un sol colpo la storia segreta della sua realizzazione, raccontata da Oshii Mamoru.


La seguente intervista è tratta da: AA.VV., PERSONA – Oshii Mamoru no sekai, Tōkyō, Tokuma Shoten, 1996, pp. 04-21.
La traduzione è stata realizzata da Yupa tra i giorni 19 Luglio e 24 Luglio, battuta a computer tra il 2 e l'8 Settembre, riveduta e corretta tra il 10 e il 14 Settembre 2003.
La traduzione con ha alcun fine di lucro, ma l'unico obiettivo di divulgare informazioni in lingua italiana sull'animazione giapponese, altrimenti irraggiungibili.
Dizionarî adoperati:
- AA.VV., Dizionario Shogakukan Giapponese-Italiano, 1994, Shogakukan, Tōkyō.
- Nelson, Andrew Nathaniel, The modern Reader's Japanese-English Character Dictionary – second revised edition, 1974, Tuttle Language Library, Rutland-Tōkyō
- AA.VV., Reigai shin kokugo jiten, 1993 (quarta edizione), Sanseidō, Tōkyō
- Matsumura Akira (a cura di), Daijirin, 1995 (seconda edizione), Sanseidō, Tōkyō
Tutti gli errori e le omissioni, nonché le note contenute tra parentesi quadrate, sono da addebitarsi al traduttore. In caso di citazione si prega di non alterare il contenuto.
L'ordine cognome-nome rispetta l'originale giapponese e non è ribaltato come invece avviene di consueto (quindi Oshii Mamoru e non Mamoru Oshii).
I titoli delle opere giapponesi non sono stati lasciati secondo l'originale, come sarebbe stato corretto, ma variati in versioni maggiormente comprensibili per il lettore italiano (quindi non Kidō keisatsu Patoreibā 2 – the Movie, ma, semplicemente, Patlabor 2); ho tuttavia scelto di tradurre quello che nell'edizione italiana di Ghost in the Shell (causa il passaggio attraverso l'edizione in lingua inglese) è noto come "Signore dei pupazzi" con il più letterale e corretto "Marionettista" (in originale: "ningyotsukai").

Volevo provare a realizzare una storia che c'era già prima di Patlabor.


Come prima cosa, quale impulso l'ha portata a voler realizzare Ghost in the Shell?
Quello che provavo quando ho comincio a lavorarci è diverso da quello che provo ora, e siccome da allora è passato parecchio tempo, adesso non ricordo più bene.
Già in Patlabor 1 [il primo lungometraggio dedicato alla serie di O.V.A Patlabor, uscito in giappone nel 1989; il titolo completo giapponese è Kidō keisatsu Patoreibā – the Movie. n.d.t.] la storia ruotava intorno a un hacker, un criminale informatico, cosa che però non avevo potuto mettere in scena in modo approfondito. Trattandosi di un film, se avessi puntato troppo sui lati tecnici e specialistici, come possono essere le esperienze simulate o le reti informatiche, sarebbe andato perso tutto il divertimento dell'azione.
Dentro di me, quindi, c'era la voglia di realizzare in un'altra occasione quello che in Patlabor 1 non avevo potuto. E siccome mi ero trovato bene con lo staff con cui avevo lavorato per le parti in computergrafica, sia in Patlabor 1 che in Patlabor 2 [il secondo lungometraggio, uscito in giappone nel 1993; il titolo completo giapponese è Kidō keisatsu Patoreibā 2 – the Movie. n.d.t.], avrei volevo fare qualcosa di diverso ma sempre con loro. Così ho continuato a sperare di poter affrontare in maniera un po' più consistente la tematica delle tecnologie informatiche usando gli stessi metodi.
È in quella mi venne fatto il discorso della versione animata di Ghost in the Shell.


Quindi non si tratta di un progetto proposto da lei?
No, no, e io stesso non pensavo proprio che potesse venirmi affidato; e per questo sono stato colto un po' di sorpresa.
Mi sembra fosse proprio verso la fine dell'anno in cui avevo terminato Patlabor 2 [il 1993, n.d.t.]. Fu mister Bandai a chiamarmi: il posto dell'incontro era un eccellente locale di sushi, sul fiume Sumida, in una stanza riservata al terzo piano, per di più. Pensai che sicuramente c'era sotto qualcosa. Io, a dire il vero, avevo con me progetti per opere che avrei voluto fare, ma proprio quando stavo per mostrarli fui preceduto e venne posato sul tavolo, davanti ai miei occhî, un volume di Ghost in the shell.
A me i lavori di Masamune Shirō erano tutti piaciuti e Ghost in the shell l'avevo particolarmente apprezzato, ma non avrei mai immaginato che ci avrei avuto a che fare.

 
Quale parte le era piaciuta, in particolare, di Ghost in the shell?
Avevo pensato che l'episodio del marionettista era adatto per farne un film, e poi che Kusanagi Motoko era un personaggio convincente. Avevo anche avuto un presentimento che, almeno una volta, avrei potuto lavorare assieme a Shirō.
Le sue, però, sono opere difficili. Si tratta di mondi che è possibile portare in animazione, ma non senza difficoltà. Ci sono sempre combattimenti furibondi basati sulla coscienza maniacale della tecnologia, per cui, volendo dare spessore ai personaggi, si rischia di cadere nell'azione grossolana. Il fatto è che, se si tenta di dare vita a una visione del mondo come quella di Shirō, un film in quanto tale si sfascerebbe.
Ma nel caso di Ghost in the shell, sembrava che si potessero sistemare le cose. Anche perché l'opera aveva un suo spirito volto al divertimento. E dava l'idea che si potesse adoperare il computer in gran quantità.
Ora, io stesso avevo appreso i modi per collaborare con chi lavora con la computergrafica e, a un certo livello, anche come funziona. Avevo compiuto ricerche piuttosto approfondite sulla manipolazione delle immagini, e mi sentivo abbastanza presuntuoso e fiducioso di essere uno dei registi più validi nell'utilizzo della computergrafica in animazione.
Come poter usarla in maniera facile e razionale per creare le immagini? È in questa direzione che speravo di poter fare qualche passo in più.
Però esitavo.


E questo perché?
Perché c'erano almeno dodici o tredici anni d'età che mi separavano dall'autore del fumetto. Mi chiedevo cosa ne sarebbe venuto fuori; ma fu mia moglie a decidere, con una sola frase: "Tesoro, guarda che se rifiuti questo lavoro probabilmente l'anno prossimo sarai disoccupato", mi disse. ^_^
Il budget di Ghost in the shell era notevole, e se avessi accettato, avrei potuto viverci per un anno. In più, come incentivo, c'era la possibilità di acquisire nuovo know-how. E poi nella storia c'erano un sacco di armi e la protagonista, per essere una donna, stranamente la apprezzavo: pensai non mi restasse altro che accettare. E infine Shirō, per chiarire le cose, mi disse: "Puoi fare quello che vuoi", e così accettai ufficialmente.
Per fare Ghost in the shell avevo bisogno di modificare ampiamente l'opera originale, e per questo volevo a tutti i costi una licenza.

 
 

L'opera di Shirō e la sua hanno due differenti impostazioni. In che modo sono avvenuti i cambiamenti?
Innanzi tutto, i personaggi. Trasformare in film i disegni di Shirō era davvero impossibile. E poi le armi. È stato cambiato tutto il design delle armi. Per quanto riguarda le armi immaginarie, il mio metodo consiste nel far sì che si discostino poco da quelle reali, perché con l'eccesso di futurismo si perde realismo. Armi dallo stile futuristico come quelle Seburo (un produttore d'armi che compare nel fumetto di Ghost in the shell), lo dico chiaramente, non si adattano ad un'ambientazione che richiama Hong Kong. Inoltre io ho una mia politica sulle armi, diversa da quella di Shirō, e tra le due non si sarebbe potuto trovare un compromesso.

Non ci sono differenze tra le armi rappresentate e quelle attualmente esistenti, dunque?
Le pistole sono tutte realmente esistenti. Per esempio, il design dell'arma che alla fine usa Motoko rimanda alla P90 (mitragliatrice prodotta dal Browning) e al Famas (fucile d'assalto in dotazione ufficiale all'esercito francese). L'unica arma completamente inventata è il fucile anticarro che poi usa Batō. Ma quello è un mostro, e solo un cyborg può usarlo come si deve per sparare.

Non compaiono nemmeno i fuchikoma (blindati senzienti, usati della sezione 9, presenti nel fumetto).
Sembra che molte persone ne siano state non poco insoddisfatte, ma io avevo deciso sin dall'inizio di farli sparire. Ci sono diverse ragione: innanzi tutto la voce. I fuchikoma danno una forte impressione di essere delle mascotte, era inevitabile che si sarebbero trasformate in presenze kawaii, cosa che mal si accordava con il film nel suo complesso. Poi, se Motoko, una cyborg, montasse un mecha potente come lo è un fuchikoma, sarebbe diventata imbattibile. Il mio timore era che nelle scene d'azione, queste sarebbero stata del fuchikoma e non di Motoko.
 

Ghost in the Shell, opera singolare dalla protagonista ben definita


Ghost in the Shell e Patlabor 1 si somigliano: forse si tratta di un'impressione, o forse dipende da come è stato trattato il tema dell'informatica...
Il presupposto di base è comunque diverso. Al centro della storia di Patlabor 1 non stavano i componenti del secondo plotone, come Izumi Noa o Shinohara Asuma, ma Hoba, il geniale hacker. Sicuramente a muoversi sullo schermo sono i componenti del secondo plotone, ma è solo un mezzo il cui fine è quello di poter rappresentare l'odio indiscriminato di Hoba verso la società. È Hoba, quindi, il vero protagonista di Patlabor 1.
Ghost in the Shell potrebbe sembrare, a prima vista, mettere in scena i crimini informatici di un hacker dalla misteriosa identità, chiamato "Il Marionettista", ma alla base c'è il punto di vista di Kusanagi Motoko, che ne è la protagonista. Quello che qui conta è mostrare il modo in cui Motoko cambia attraverso l'inspiegabile presenza del Marionettista, e che questo venga mostrato dal suo punto di vista. È in questo che i presupposti sono diversi.


Ghost in the Shell ha comunque una protagonista ben definita.
Credo che per questo rientri in una categoria a parte rispetto ai film che ho fatto fino ad ora, appunto perché c'è una protagonista che risalta. Il fatto è che, dopo Lamù, in tutti i miei filme non spiccava alcun un protagonista. Questo è il primo dove il protagonista compare in ogni scena. In questo senso l'ho realizzato in modo ortodosso. Però ero incerto se avrebbe o meno funzionato, a maggior ragione con una protagonista femminile. Fino ad ora, infatti, i miei lanci erano stati palle ad effetto. [la metafora si riferisce al mondo del baseball, e prosegue nelle frasi successive: Oshii intende dire di aver sempre creato opere, dal punto di vista del modo di trattare i personaggi, originali rispetto alla norma]
 

Com'è stato, invece, creare un'opera che fosse nuovamente un lancio dritto, cosa che non faceva dai tempi di Lamù?
A dire il vero però credo sia questa la prima volta in cui ho tentato un lancio dritto. È difficile poter definire un lancio dritto persino Only You, anche perché sparisce Lamù, che invece dovrebbe essere fondamentale; anche se c'è Ataru Moroboshi che, a modo suo, si dà da fare. Ma più che un lancio dritto si è trattato di un lancio violento e io stesso la considero un'opera fallimentare.
Quindi, ora, con Ghost in the Shell, ciò che più mi ha messo in difficoltà è stato come trattare Motoko. Questo perché la storia si sviluppa secondo il suo punto di vista, e io dovevo avere ben chiari dentro di me il suo carattere e la sua mentalità. Be', trattandosi di un cyborg, con dei tratti caratteriali evidentemente diversi da quelli di una donna normale, in qualche modo ci sono riuscito. Se la protagonista fosse stata una donna della stessa età ma con un corpo normale, in carne e ossa, non credo sarei riuscito a metterla in scena.

 

Di dove nasce l'anima? Anime che abitano corpi


Ci sono differenze tra i cyborg e i comuni umani?
Da dove si può pensare che nasca la coscienza, l'ego degli esseri umani? Non dal cervello.
Ad esempio, quando si vuole riconoscere ciò che il proprio sé è, è usando gli arti, toccando ciò che ci circonda e che è diverso dal sé che si riesce a stabilire un confine esterno. Ci sono poi i lineamenti o le capacità motorie che influiscono sul carattere. Estremizzando, si può dire che la coscienza nasca dal corpo, non dal cervello. C'è da chiedersi quindi di dove nasca la coscienza dei cyborg, il cui corpo è meccanico.
In me nasce una coscienza individuale proprio perché io posseggo un corpo completamente diverso da quello degli altri, ma i corpi dei cyborg, che sono artificiali, sono standardizzati, e quindi non esiste una base per la nascita di un'individualità.
È per questo che Motoko si tormenta e si chiede se la propria coscienza, la propria individualità, la propria personalità, il proprio ego o, come si dice nel film, il proprio "ghost", sia veramente suo.


Però in Ghost in Shell il Marionettista, che è privo di corpo, possiede un "ghost", mentre gli androidi, che posseggono un corpo praticamente come quello degli uomini, ne sono privi. Quindi le condizioni che portano al possesso di un "ghost" sembrano estremamente vaghe.
È un problema, questo, poco chiaro... non è detto che anch'io non possa averne un'idea poco definita.
Riguardo il Marionettista, è probabile che quelle sezioni che fanno da confine al programma, cioè l'interfaccia, assolvano le stesse funzioni di un corpo. Un programma è un ammasso di dati, e non essendo disperso uniformemente all'interno di un computer, esiste un confine chiaro tra le informazioni che gli appartengono e le informazioni che gli sono esterne. Inoltre il Marionettista ha la possibilità di hackerare i cervelli dei cyborg e di ottenerne il controllo, e proprio per questo ha diverse occasioni per distinguere il mondo esterno dal suo sé.
Per quanto riguarda gli androidi, invece, si trovano tutti nelle condizioni per poter diventare come il Marionettista: ma la causa decisiva sta nella differente quantità di informazioni accumulate, cioè nella memoria. Anche per i neonati umani è così: se non vengono immagazzinate una quantità sufficiente di memorie passate, il sé non prende forma.


Ovviamente. Però deve essere molto difficile esprimere su schermo quando il "ghost" sia o meno presente. In particolare per il Marionettista, che non ha un suo aspetto esteriore.
Parlando da un punto di vista strettamente registico, il punto, qui, è come esprimere l'esistenza di una distinzione sulla base della presenza o assenza del "ghost". Ho usato diversi accorgimenti. Ad esempio, ci sono personaggi che credono di possedere un "ghost" mentre in realtà gli è stato totalmente fabbricato, e persino i loro ricordi passati sono esperienze simulate. Per queste persone esistono dei modelli di comportamento che possono essere notati dall'esterno, dei sistemi di regolazione preconfezionati che li portano a fissarsi su una particolare cosa.
Dall'altra, Motoko, che possiede un "ghost" a tutti gli effetti, dubita della propria stessa esistenza, arrivando a chiedersi se davvero è un essere umano. Ho scelto dei sistemi per rendere plausibile la cosa allo spettatore all'interno dei confini della storia. Nel caso di Motoko, un cyborg, si tratta di diversi accorgimenti: ad esempio, non le ho fatto battere gli occhi.

 

La difficoltà maggiore, a livello registico, dev'essere stata con il Marionettista, giusto?
No, al contrario, è stato il caso più semplice. Consistendo unicamente in una voce, è bastato scegliere un doppiatore che comunicasse un'immagine il più possibile vicina a quella del Marionettista. Una voce dotata di un forte carisma, un po' diversa da quella degli uomini in carne e ossa.

Non è stato preso in considerazione l'uso di una voce sintetica?
Non sarebbe stata possibile un'interpretazione. È ovvio che la mancanza di una voce viva non avrebbe avuto senso.

E il motivo per cui è stata scelta una voce maschile?
Il Marionettista usa un corpo artificiale di modello femminile: ho scelto una voce maschile pensando all'impatto che avrebbe avuto sul pubblico.
Una cosa molto interessante, certamente non realizzabile nel fumetto.
È un vantaggio dei personaggi dell'animazione: se la voce è la stessa, il personaggio rimane lo stesso anche usando una diversa immagine.


La teoria registica di Oshii in Ghost in the Shell


In animazione uno stesso personaggio viene disegnato da venti o trenta persone, che non possono avere tutti lo stesso tratto. Eppure, il personaggio continua ad essere sempre lo stesso. Ad esempio, nell'animazione delle serie televisive, il tratto cambia leggermente ad ogni episodio settimanale, ma gli spettatori riconoscono i personaggi sempre come gli stessi. E questo perché? Fondalmente, si tratta della voce...

Nei film dal vero o nel teatro l'individualità dei personaggi viene espressa con gesti minimi.
Questo è uno dei punti deboli dell'animazione. Non è possibile, nemmeno volendolo, esprimere tramite l'animazione il fatto che, anche se l'aspetto cambia, gesti e atteggiamenti permangono. Non so come saranno le cose in futuro, ma per adesso non è possibile. Dopotutto, un personaggio animato è privo di sostanzialità. Il disegno, difatti, è un simbolo. Una semplificazione, una condensazione estrema della realtà, questo sono i simboli: è quindi possibile creare delle distinzioni con sistemi semplici, come il peso dei corpi o la loro velocità, ma renderle tramite gesti e atteggiamenti è tecnicamente difficile.
E nonostante questo in Ghost in the Shell mi sono dato da fare in più modi. Ad esempio Motoko è stata disegnata pensando a come dove disegnare un cyborg. Solitamente un cyborg viene rappresentato come un superuomo, ma nel caso di Motoko azioni acrobatiche non ce ne sono quasi. In cambio, ho voluto far emergere la sua natura nell'assenza di espressioni di dolore anche quando le si spezzano le braccia o le si staccano le gambe, o nel fatto che, nei salti, il peso del corpo artificiale sfasci il pavimento all'atterraggio.
Si pensi anche solo al modo di camminare: come si può fare per dotare un corpo meccanico di un proprio ritmo, così com'è per quelli in carne e ossa? Si tratta di cose che non possono essere rappresentate direttamente, e renderle tramite disegni è estremamente impegnativo.

 
 

Riguardo a questo: Motoko è povera di espressioni, ma si tratta di una cosa voluta, giusto?
Certamente. La sua immagine è quella di una bambola. Quando lessi il fumetto considerai subito alla storia come una messa in scena del matrimonio tra il Marionettista e Motoko. Pensai quindi che la sposa di un Marionettista dovesse appunto essere una bambola.
L'ho già detto prima: Motoko batte gli occhi raramente. Battere gli occhi è il massimo che si può ottenere nell'animazione, quanto a recitazione, ed è lavorando su questo si riesce a far emergere un minimo di vitalità.
Quando ci si collega alla Rete, o quando il "ghost" finisce sotto il controllo del marionettista, l'anima si separa dal corpo. Si è privi di vitalità e non si battono gli occhi. Per animatori che hanno studiato come disegnare personaggi espressivamente ricchi, dev'essere stato un lavoro molto duro.

 

Il matrimonio tra il Marionettista e Motoko, e quindi la nascita di una nuova vita


Un matrimonio tra il Marionettista e Motoko? Ma dopo ciò che fine fa Motoko?
La storia finisce proprio con la loro unione, e successivamente alla fusione di Motoko con il Marionettista nasce una vita nuova, qualcosa che non è nessuno di loro due.

A quel punto Motoko ha cessato di esistere.
Probabilmente è così. Fondamentalmente ho cercato di rendere l'immagine di Motoko come quella di una donna il cui desiderio era questo. Durante la storia Motoko continua a dubitare del proprio "ghost"; in altri termini, è insoddisfatta del proprio sé com'è in quel momento, vorrebbe diventare qualcosa di diverso. Ma questo desiderare di diventare qualcosa di diverso da sé, significa negare il sé che, in quel momento, prova un tale desiderio. Inoltre, nel contempo, anche se ora si è insoddisfatti dei proprî limiti e di sé stessi, si prova il desiderio di non voler perdere il proprio sé. Si tratta di una antinomia, una proposizione non risolvibile. Questo perché è una cosa certa la presenza, qui e ora, di questo sé che tanto desidererebbe cambiare. Cos'è questo io che dubita di se stesso? È a questo che porta il discorso. Alla fine Motoko, con il suo dubbio ancora intatto, si fonde con il Marionettista, e si trasforma in qualcosa di nuovo, che non è più lei.
La storia termina suggerendo questo qualcosa come un'esistenza non prigioniera di antinomie o cose simili. Ma quello che succede poi, è completamente affidato al giudizio dello spettatore. La storia finisce lì, e non ritengo così importante quello che accade dopo.

 
 

Quindi non viene mostrata una conclusione?
Il fatto è che le storie, tutte, in fin dei conti, parlano di persone che cambiano. Il personaggio che compare all'inizio, quando arriva alla scena finale è cambiato. Può essere la storia di un cattivo in cui si risveglia la sua buona coscienza, o quella di un uomo che, ignaro dell'amore, riesce a raggiungerlo. In altri termini sono i mutamenti delle persone a diventare storie, e la questione non è il contenuto concreto del cambiamento, non è ciò che cambia.
I film sono questo: fondamentalmente non danno risposte, ma pongono domande: il loro compito non è rispondere. Consideriamo il caso di Motoko successivamente alla fusione: non viene detto chiaramente se la sua trasformazione in una diversa esistenza l'abbia portata ad essere, come diceva il Marionettista, un'esistenza di livello superiore, o se invece si sia trattato di una semplice fusione dei ricordi e delle personalità; o se, ancora, Motoko sia solamente stata ingannata. Da parte mia mi chiedo se sia riuscita effettivamente a raggiungere un livello alto quanto aveva inizialmente creduto.

 

Una quantità di lavoro più che doppia rispetto a Patlabor 2


Ci sono stati dei problemi una volta iniziata la lavorazione effettiva?
Tanto per cominciare il manga non era sempre comprensibile. Venivano usati termini tecnici, come "micromachine" o "chip neurali", termini che nessuno conosce. Ho letto attentamente il volume, penso sulle venti o trenta volte e dei testi citati nelle note a margine, mi sono procurato tutto quello che ho potuto procurarmi.
Dal punto di vista dell'effettivo lavoro di realizzazione, comunque, le cose sono andate in modo ottimo. Eppure la quantità di lavoro è stata più che doppia rispetto a Patlabor 2, e questo perché ho avuto l'obiettivo di aumentare la quantità di informazioni rappresentate su schermo. L'eccessiva difficoltà ha anche portato delle tensioni: "Ma perché qualcuno non lo ferma?", c'era chi si chiedeva. ^_^
Anche il computer ho pensato di usarlo a un livello diverso rispetto a Patlabor, dal low‑tech allo high‑tech, anche se questo ha aumentato la quantità di lavoro. Il computer, alla fine, non rende le cose più facili; sono macchine che aumentano in un sol colpo le quantità di informazioni utilizzabili, ed è ovvio che allora aumenti anche la quantità di lavoro.
Un'altra caratteristica di Ghost in the Shell è la scelta dei colori. Solitamente, quando all'inizio si stabiliscono i colori relativi ai personaggi, vi è un colore, chiamato "normale", sulla cui base si impostano via via le ombre e le tonalità. Di solito, quindi, la maggior parte delle sequenze utilizzano il colore "normale". Ma nel nostro caso questo sarà stato usato soltanto in due sequenze. Nishikubo, il regista, e Kumiko-chan, la colorista, hanno fatto in modo di cambiare i colori a seconda delle situazioni [Nishikubo è Nishikubo Toshihiko, già presente in Laputa, Video Girl AI, Patlabor 2; il nome intero della colorista è Katayama Kumiko. n.d.t.]. Anche se si fosse deciso che un personaggio era di un certo colore, nella realtà quello non sarebbe stato usato, perché il colore cambia a seconda delle condizioni e delle situazioni. Il punto è che il è mondo reale ad essere fatto così, e anche nei film dal vero non ha senso fare discorsi rigidi su un unico colore della pelle.


Inoltre, per le riprese, sono stati usati dei filtri, ci sono state manipolazioni digitali...
Certo, persino in occasioni in cui non risultano nemmeno visibili.
Estremizzando, potrei dire che ogni fotogramma, una volta completato, è stato ripreso con l'uso di un filtro, sempre. Non sono quasi state fatte riprese senza che ci fosse qualcosa sulla lente della telecamera.
Attualmente, in animazione, già da molto tempo siamo arrivati al punto in cui i colori possono essere cambiati a seconda dei desiderî del regista. Quel che è certo è che, nel nostro caso, l'uso di una quantità notevole di filtri è stata dovuta proprio anche al grande lavoro fatto nella scelta dei colori. È stupefacente come il colore della pelle di Motoko possa risultare grigio piombo una volta visto su schermo. Se si considera il disegno unicamente come risulta sul rodovetro ci si può preoccupare se sia riuscito bene o no, ma una volta montato sul fondale ci si convince che va bene così. Poi, la scelta dell'uso di filtri nelle riprese è stata pensata anche per armonizzare i colori tra le diverse sequenze o con la computergrafica. Si tratta di un lavoro molto delicato, qualcosa che non può essere fatto senza conoscere il modo in cui funziona lo sviluppo della pellicola; si deve anche fare attenzione che si mantenga uniforme la qualità di tutta l'opera.
Abbiamo poi introdotto qualche nuovo metodo per i fondali. Ad esempio, durante il film sono presenti una gran quantità di insegne. Queste sono state disegnate tramite un McIntosh, stampate e poi riprodotte sul fondale. Ci sono invece fondali con delle fitte serie di poster uguali: non avrebbe avuto alcun senso farli tutti a mano, e quindi ne è stato disegnato uno, per poi copiarlo e riprodurlo sul fondale e si è infine aggiunto il colore. Credo siano cose che, finora, nessuno ha mai fatto. Certo, non tutto è riuscito alla perfezione, ma credo che nella maggior parte dei casi l'esito sia quello che avevo pensato.
È risultata comunque un'opera sobria, molto più di quanto avrei immaginato. Nishikubo, uno dei registi, mi disse che era ovvio, e sembra che anche il resto dello staff la pensasse così. Mi chiedo se lo staff non mi capisca più di quanto mi capisca io stesso... fatto sta che hanno realizzato diverse cose che io volevo prima ancora che ne facessi richiesta. Comunque sia, da questo punto di vista, è tutto filato liscio. Sapevo che anche solo da un layout tutti capivano quello che avrebbero dovuto fare. Alla fine io ho solo fatto le rifiniture. Le animazioni principali e tutto quel che segue è l'ho a Nishikubo, e io me ne sono rimasto a parlar di sciocchezze con Ogura Hiromasa, il responsabile dei fondali [Ogura ha lavorato ai fondali, tra gli altri, di Remì, Le ali di Honneamise e Patlabor. n.d.t.].

 
 

La direzione dell'animazione in Ghost in the Shell è stata affidata a Okiura Hiroyuki e Kise Kazuchika. In che modo si sono divisi il lavoro?
Okiura si è occupato della scena madre: dal momento in cui vengono istituiti i posti di blocco durante l'inseguimento dell'automobile della sezione sei, sino al combattimento nel museo invaso dall'acqua; e poi i titoli di testa. Il resto l'ha fatto quasi tutto Kise. Non è che ci siano stati dei motivi per questa divisione, è una cosa di cui hanno discusso tra loro, io non mi sono affatto intromesso.

È stata comunque una divisione eccellente.
Anch'io penso che abbia funzionato bene. Anche se, tra i due, devo ammettere che è stato Kise a lavorare di più per ottenere meno; a prima vista, infatti, il piatto forte sono le scene d'azione di cui si è occupato Okiura. Io però apprezzo davvero tanto l'interpretazione di Motoko nell'ultima scena, dopo che lei è entrata nel corpo artificiale della ragazzina, scena che ha realizzata Kise.

Ovviamente è stato lei a scegliere loro due per la direzione dell'animazione.
Avevo pensato sin dall'inizio di affidarla a Kise, ma con la scaletta che avevamo sarebbe stato impossibile che concludesse da solo il lavoro entro i tempi stabiliti. E così sentii Okiura, con cui avevo lavorato dai tempi di Patlabor. Lo stesso Okiura aveva detto di voler prendervi parte.
 

Un'altra caratteristica di Ghost in the Shell: sonorità mai sentite prima


In Ghost in the Shell desideravo impegnarmi anche dal punto di vista del sonoro, visto che, per quanto riguarda l'animazione in sé, le condizioni erano ben definite e senza problemi. Non mi sarebbe piaciuto fare qualcosa come Patlabor. È stato comunque sfiancante e i lavori per il sonoro sono durati nove settimane. Però ho seguito la realizzazione della colonna sonora fino al mixaggio, avvenuto a Los Angeles, e di questo ne sono soddisfatto, perché ho potuto imparare molto sul sonoro. Non erano certo cose necessarie, ma io volevo comunque conoscerle: il modo in cui funziona il dolby, la logica che c'è dietro alla manipolazione sonora... cose di questo genere.
La musica era particolarmente importante. Ho avuto diversi incontri con Kawai e abbiamo discusso su come fare per ottenere una musica diversa da quella di Patlabor. Il risultato è stato grossomodo positivo e questo, lo devo dire, mi ha sollevato, perché in fase di realizzazione ci sono state tantissime cose che mi preoccupavano. Anche perché avevo posto diversi divieti a Kawai.


Ad esempio?
Be', ci sono delle combinazioni di suoni che sono tipiche di Kawai, degli schemi riconoscibili come suoi: in questo momento entra il pianoforte, dopo tocca agli archi... cose di questo genere. E io, di base, ho proibito che le usasse, mi sono dato da fare il più possibile perché rimuovesse tutto quello che suonasse tipico di Kawai Kenji. E così lui ha sempre fatto, fino all'ultimo istante, fino all'ultima registrazione; mi ha seguito senza mai lamentarsi. Fondamentalmente, se avesse mollato tutto, non avrei potuto dirgli niente.

Magari con parole come: "questo non è il mio lavoro!"...
Sì, anche perché io non mi facevo problemi a dirgli: "Quegli archi, quella frase, ci stanno da cani!! Da capo!!" ^_^ Ma lui si è impegnato fino all'ultimo momento. Credo anche che non ne sia rimasto soddisfatto, ma gliene sono grato perché ha sempre riveduto tutto dando il massimo che poteva dare.

Ma come mai ha tanto insistito per una musica diversa?
Forse lo stesso Kawai non se ne era reso conto, ma in Patlabor 2 il suo stile saltava fuori in maniera esplosiva, e io avevo pensato che la volta successiva non sarebbe dovuto accadere. Ma quando si discusse come fare, nessuno, nello staff, sapeva che pesci pigliare.
Ancora adesso non riesco a dimenticarlo: abbiamo fatto un'irruzione di massa a casa di Kawai, abbiamo ascoltato diversi CD e Kawai ha provato a battere su uno strano tamburo, comprato in Thailandia. Le vibrazioni che ne uscivano non erano male, così abbiamo cominciato a discutere se provare a sfruttarle. Ma quando si provava ad aggiungere una voce, era un vero disastro: sovrapponendo una voce di tipo classico, con i vibrati, la risonanza del tamburo svaniva. Provammo quindi diverse voci, e dopo parecchî tentativi alla fine abbiamo visto che sarebbe andato bene qualcosa tipo i cori bulgari; ma si trattava di musica popolare, e facendo una ricerca scoprimmo che complessi corali professionisti non ce ne erano. E non potevamo certo, con dei dilettanti, dar loro degli spartiti e dire di provare a cantare. In quella Kawai si ricordò che, durante le registrazioni per Ranma ½, erano state chiamate delle ragazze per fare un accompagnamento vocale di tipo tradizionale. Forse delle voci giapponesi, che non cantano in modo classico, potevano avvicinarsi alla musica popolare, una musica in cui non ci sono i vocalizzi usati in quella classica. E provare a inserire uno strano vibrato? In questo modo ci si avvicinava ai cori bulgari, no? Il risultato fu davvero ottimo. Proponemmo la cosa al gruppo di tre ragazze che avevano cantato un accompagnamento di tipo tradizionale in Ranma ½, che divennero così parte dello staff.
Poi, durante le prove, si parlò di inserire dei trilli, e così abbiamo usati anche quelli. Lo staff del sonoro si divertì, era la prima volta che un coro usava i trilli in quel modo. Io pensavo che le cose erano finalmente a posto, ma in realtà il momento cruciale doveva ancora arrivare.

 

E cioè?
Quando, per la registrazione effettiva, ci si ritrovò nello studio di Karuizawa, tutti quanti, e Kawai per primo, guardarono verso di me. E quando io chiesi: "Allora, non cominciate?", Kawai borbottò a bassa voce: "Come si può fare?... Non ne ho la minima idea!"
"Non hai pensato niente?"
"Niente."
Effettivamente avevamo deciso di usare il tamburo e le voci dei canti tradizionali, ma non sapevamo come usarli per ottenere dei brani musicali. Si trattava poi di suoni su cui non si aveva alcuna esperienza, non si sapeva nemmeno in che ordine registrarli. Io ero sconvolto, ma non c'era molto che si potesse fare, e conclusi: "Be', intanto proviamo il tamburo". E così la prima sessione di registrazione si concluse con Kawai che batteva il tamburo! ^_^
"Ma riusciremo davvero a fare della musica, in questo modo?": in quel momento era questa era la mia impressione. Intanto era arrivato un percussionista, si erano cominciate delle registrazioni e qualcosa di simile alla musica stava venendo fuori. Si andò avanti così, e durante tutta la lavorazione ci si chiedeva se fosse o no musica, finché non aggiungemmo la voce e, per ultimi, gli archi, arrivando in qualche modo alla conclusione. Mia moglie disse che andava bene, e così passammo al mixaggio finale. Io, però, ero preoccupatissimo, mi chiedevo se una musica realizzata in quel modo si sarebbe adattata a quelle immagini. Ma quando provammo a sovrapporla al film su schermo, incredibilmente funzionava.
Io, comunque, fino a quel momento non sapevo praticamente nulla del modo in cui si fa la musica: è stato un caso esemplare di metodo per prove ed errori. Il fatto è che ci trovavamo sotto una notevole pressione riguardo al genere di musica che sarebbe stata usata, e le richieste venivano in particolare dalla Manga Entertainment, che era controllata dall'etichetta Island, un'azienda musicale. Io però avevo la risposta giusta: "È tutto a posto, ho un asso nella manica". In realtà sia io che Kawai non riuscivamo a prevedere assolutamente nulla! ^_^
Il concetto di base è stato di non fare musica all'occidentale, ma una musica etnica priva di nazionalità. Non abbiamo usato musica folk, perché sarebbe stato sin troppo facile: se non ci si impegna veramente non ha senso pretendere di fare la musica per un film. Ci sono stati anche molti strumenti che non abbiamo potuto usare: tanto per cominciare il pianoforte, e poi le arpe, che di solito invece si usano sempre. Quasi tutti gli ottoni non andavano bene, e anche buona parte dei fiati. Anche le percussioni, funzionavano solo quella della musica folk, ma senza suonarle come si fa di norma. Per i suoni bassi, tra l'altro, abbiamo usato strumenti come i gamelan, ma solo leggermente sfiorati da mani femminili.
Sono stati momenti da brivido, e Kawai continuava a ripetersi sino all'ultimo momento: "Ma cosa facciamo se tutto questo fallisce? Io ho paura di perdere la faccia davanti a tutto il mondo: quella strana musica popolare avrà un suono orrendo". Credo che anche Kawai sentisse la forte pressione.
Un altro vantaggio del lavoro che ho fatto è stata la trasferta a Los Angeles.


In che senso?
Ho potuto capire parte del segreto del cinema americano, la ragione per cui quello americano e quello giapponese sono così diversi. Il cinema americano usa il sonoro in modo particolare, si può dire che per loro sia una specie di politica, di ideologia. Il punto cruciale è il modo in cui i suoni bassi vengono utilizzati: in Giappone è al livello dell'udibilità dell'orecchio, mentre in America fanno vibrare l'atmosfera. In america c'è una forte concezione del cinema come spettacolo: non opere, ma spettacolo, l'importante è come intrattenere larghe fasce di pubblico. È partendo da un punto di vista in cui la domanda è come attrarre questo pubblico che nasce il modo in cui il suono viene creato: esplosioni, e poi dialoghi che siano chiaramente comprensibili. Anche gli effetti sonori devono vibrare al massimo volume. Questo viene eseguito in modo totalizzante, ed è da qui che nasce il sapore tipico del cinema americano. In Giappone, invece, si fa attenzione a ottenere un sottile equilibrio, ed è questo che crea tanti problemi agli addetti al sonoro, perché il mondo che loro costruiscono può essere distrutto molto facilmente.
Il mondo del cinema giapponese, con il suo straordinario equilibrio, e quello del cinema americano, con la sua schiacciante potenza: non si può dire se uno dei due sia il migliore, perché alla base ci sono due diverse ideologie. Fatto sta che il sonoro del cinema giapponese dà l'impressione di essere maggiormente accogliente, più alla portata dello spettatore.*
Tra parentesi, c'è una ragione per cui si dà tanta importanza all'equilibrio: il problema è nelle installazioni delle sale. Gli impanti sonori, in Giappone, variano da cinema a cinema, e l'equilibrio e le regolazione degli altoparlanti sono insufficienti, per cui i suoni troppo alti si trasformano in rumori sgradevoli. Le compagnie di distribuzioni seguono quello che dicono i cinema, e le ripercussioni negative sono sui curatori del sonoro dei film, i quali, per paura, preferiscono non usare volumi alti. Così stanno le cose.
Poi c'è il problema dei dialoghi. I doppiatori americani si sforzano per comunicare in qualche modo il senso dei dialoghi giapponesi, ma, di base, le traduzioni sono molto libere. Parlando chiaro, nell'edizione americana Ghost in the Shell è diventato un altro film, l'ho pensato subito non appena l'ho visto.


Il sonoro, da solo, può fare una così gran differenza?
Certo. Mi sono chiesto se era davvero un film d'azione così chiassoso: non c'era uno spazio, una pausa per riflettere su niente.

Non lo riconosceva più, quindi?
Il fatto è che anche se si seguisse tutto quanto fino dal doppaggio, anche se si curasse la traduzione fino ad ottenerne una convincente, ugualmente non sarebbe più lo stesso film. Il muro linguistico è alto più di quanto non ci si immagini, si tratta di un problema insolubile. Già, il cinema non è un linguaggio comune per il mondo, un film, quando supera i suoi confini nazionali, vive di continui fraintendimenti.

Certamente. E questo lo si capisce anche solo vedendo le edizioni doppiate dei film occidentali. [l'intervistatore intende, ovviamente, le edizioni giapponesi n.d.t.]
Ma per quanto riguarda il doppiaggio io li ho rivalutati, i doppiatori giapponesi. L'ultimo giorno ho detto a Wakabayashi, il direttore del sonoro, che una volta tornato in Giappone avrebbe dovuto riferire chiaramente a Tanaka Atsuko, che aveva fatto Motoko, e a Ōtsuka Akio, che aveva fatto Batō, che il loro era stato un lavoro davvero ottimo. E lo pensavo veramente. Una battuta ha un suo tempo limitato in cui si devono comunicare delle informazioni facendo nel contempo ricorso a tutte le proprie capacità tecniche per esprimere delle emozioni, modulando i tempi e il respiro: questo vuol dire recitare. Da parte loro i doppiatori americani sono dei professionisti nel far sentire la propria voce: hanno una buona pronuncia e i dialoghi sono comprensibili, ma l'interpretazione è monotona. Pronunciano le parole ma non ne trasmettono l'emozione fino in fondo. I doppiatori giapponesi invece sono davvero eccezionali; e riescono a far completare un doppiaggio in due giorni, anche con una interpretazione del genere. Mi hanno detto che in America ci sono volute tre settimane.
 

Si dice che nell'edizione americana sia stato usato un brano degli U2 per i titoli di coda.
Se ne era parlato all'inizio, ma il produttore della Manga Entertainment ha sentito la musica di Kawai e gli è piaciuta tantissimo. Quindi per l'edizione cinematografica è stato usato il brano di Kawai, mentre per quella in videocassetta sembra verrà usato uno degli U2. Una cosa che mi ha fatto davvero felice: io e Wakabayashi ci siamo stretti la mano urlando tutti contenti!
 

Un Ghost in the Shell che Oshii deve ancora vedere


Quali sono le impressioni oggettive di Oshii quando guarda Ghost in the Shell?
Il film è stato appena completato, e quindi non posso ancora vederlo in modo oggettivo. Alla fine, per capire come pensare un film, in che modo sia diventato una realtà, devono passare almeno due o tre anni. Patlabor 2 ho finalmente cominciato a capirlo soltanto ora.

Si dice che uno che spettatore, dopo dieci anni, cambi il suo punto di vista. Si tratta di una cosa simile?
Forse rischio di essere frainteso, ma io considero importanti quegli spettatori che guardano un film dopo diversi anni. Credo che forse è quando si tiene conto del loro punto di vista che si possa realizzare un buon film. Certo, se poi lo si considera come prodotto commerciale, la sfida è nei confronti del pubblico più immediato, e poi siamo noi stessi a non voler produrre subito un pezzo d'antiquariato; insomma, un film non è qualcosa il cui sapore sia da gustare unicamente dopo diversi anni. Ma la questione è se il film sia ancora interessante, abbia ancora una sua freschezza anche guardandolo dopo che si è spenta l'inondazione pubblicitaria che lo circonda.
Allo stesso modo, anche chi ci lavora non riesce a guardarlo con distacco subito dopo il completamento. Difatti, mentre lo si crea, si continua ad essere convinti di star facendo qualcosa che sarà interessante.


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